Hitler, discorso al Reichstag – 6 ottobre 1939

Discorso pronunciato dal Cancelliere tedesco Adolf Hitler, il 6 ottobre 1939. Parole di Pace e Giustizia per l’Umanità. Di cattivo gusto sarebbe sottoporvi alcuni estratti. Vi invitiamo a leggerlo nella sua interezza.

“Deputati del Reichstag !

In un’ora densa di eventi decisivi, vi siete qui riuniti, il 10 settembre di quest’anno, quali rappresentanti del popolo tedesco. Mi trovavo allora nella necessità di portare a vostra conoscenza le gravi decisioni imposteci dall’atteggiamento intransigente e provocatore di un altro Stato. Da allora sono passate cinque settimane. Se oggi vi ho qui riconvocati, è per rendervi conto del passato e per potervi fornire gli opportuni lumi circa il presente e -per quanto è possibile -l’avvenire.

Da due giorni le città, le borgate, i villaggi del nostro paese sono pavesati con le bandiere e con gli emblemi del nuovo Reich. Al suono delle campane, il popolo tedesco celebra una grande vittoria, che non ha precedenti nella storia. Uno Stato di ben 36 milioni d’anime, un esercito di circa 50 divisioni di fanteria e di cavalleria, sono scesi in campo contro di noi; ambiziose erano le loro mire; ovvia sembrava loro la certezza di annientare il nostro Reich. Ma, otto giorni dopo scoppiata la lotta, le sorti della guerra erano segnate. Dovunque le truppe polacche si urtarono con reparti tedeschi, vennero ributtate e sgominate. I piani temerari dell’offensiva strategica della Polonia contro il territorio del Reich crollava già nelle prime 48 ore di questa campagna. Intrepide nell’attacco e compiendo marce senza precedenti, le divisioni tedesche, l’arma aerea e i reparti corazzati, e con essi le unità della marina, strappavano all’avversario l’iniziativa delle operazioni, che in nessun momento poté loro venire ritolta. In capo a una quindicina di giorni, le masse principali dell’esercito polacco erano disperse, prigioniere o accerchiate. E le armate tedesche, in quel periodo di tempo, avevano superato distanze ed occupato territori, per cui, 25 anni addietro, erano occorsi oltre 14 mesi.

Se anche un certo numero di ingegnosissimi strateghi da giornale del campo avverso ha voluto nondimeno far apparire il ritmo di tale campagna come una delusione per la Germania, noi tutti sappiamo che mai forse si ebbe finora, nella storia delle guerre, una più bella impresa di eccelso valore militare. Se gli ultimi avanzi delle armate polacche hanno potuto resistere a Varsavia, a Modlin e ad Hela fino al 1° d’ ottobre, ciò non fu effetto della loro valentia, bensì della nostra ponderatezza e del nostro senso di responsabilità.

Metodi Umanitari

lo vietai di sacrificare più vite umane di quanto fosse strettamente necessario. Eliminai cioè scientemente, dai criteri direttivi della nostra guerra, il concetto, ancora imperante all’epoca della guerra mondiale, che, per ragioni di prestigio, determinati compiti debbano venire assolti ad ogni costo entro un dato termine di tempo. Ciò che è assolutamente necessario, si fa, senza badare ai sacrifici. Ma ciò che si può evitare, si tralascia. Non sarebbe stato un problema per noi, annientare la resistenza di Varsavia dal 10 al 12 settembre, così come la spezzammo dal 25 al 27. Io volli soltanto risparmiare, in primo luogo, vite tedesche e, in secondo luogo, ebbi la speranza, ancorché vana, che anche da parte polacca la ragione e il senso di responsabilità potessero almeno una volta prevalere sulla follia e l’incoscienza.

Ma ivi appunto si ripeté, in piccolo, proprio lo stesso spettacolo cui avevamo prima assistito in grande. Il tentativo di persuadere il comando polacco responsabile -in quanto ve ne fosse uno – dell’inutilità, anzi della follia d’una resistenza proprio in una città di oltre un milione di abitanti, fallì. Un generalissimo, che prese poi ingloriosamente la fuga, costrinse la capitale del suo paese ad una resistenza che doveva condurre, tutt’al più, alla sua distruzione. Sapendo che le fortificazioni di Varsavia non avrebbero potuto, da sole, tener testa all’ attacco tedesco, si trasformò la città in piazzaforte, la si intersecò di barricate, si collocarono batterie in tutte le piazze, nelle strade e nei cortili, si costruirono migliaia di nidi di mitragliatrici e si intimò a tutta la popolazione di partecipare alla lotta. Per pura compassione delle donne e dei bambini offrii al comando di Varsavia di far almeno uscire dalla città la popolazione civile. Feci cessare il fuoco, assicurai i necessari varchi per l’ evacuazione e attendemmo tutti invano un parlamentare, come invano avevamo atteso un plenipotenziario polacco verso la fine di agosto. L’altezzoso comandante polacco della città non ci degnò nemmeno di una risposta. Ad ogni buon conto feci prolungare i termini di scadenza, diedi ordine agli aeroplani da bombardamento e all’ artiglieria pesante di attaccare soltanto obbiettivi prettamente militari e ripetei la mia intimazione. Anche questa volta invano. Feci l’offerta di non bombardare affatto un intero quartiere della città, quello di Praga, riservandolo alla popolazione civile, affinché questa avesse la possibilità di rifugiarvisi Ma anche a questa proposta i polacchi risposero col loro disprezzo. Mi provai allora due volte di far allontanare almeno la colonia internazionale dalla città. Vi riuscimmo finalmente dopo molte difficoltà; la colonia russa fu posta in salvo soltanto all’ultimo momento. Ordinai allora che il 25 settembre si sferrasse l’attacco. Quella medesima difesa che aveva ritenuto dapprima al di sotto della propria dignità già il solo accedere alle mie proposte umanitarie, cambiò allora rapidissimamente il suo contegno. Infatti il 25 cominciò l’attacco tedesco e il 27 essa capitolava. Con 120.000 uomini non ha tentato nemmeno una coraggiosa sortita (come già fece il generale tedesco Litzmann a Brzesiny con forze molto inferiori) ma ha preferito deporre le armi. Non si facciano dunque confronti con l’Alcazar. Per settimane e settimane gli eroi spagnoli, dando prova del più fulgido valore, tennero testa ai più violenti attacchi e così si sono veramente immortalati. Qui invece, senza alcuno scrupolo, si è abbandonata una città alla distruzione, per poi capitolare in capo a quarantotto ore. Il soldato polacco ha combattuto valorosamente in alcuni punti, il suo comando, però, a cominciare dall’alto, può essere tacciato soltanto di irresponsabilità, d’incoscienza e di inettitudine. Anche di fronte a Hela avevo ordinato di non sacrificare un solo uomo senza una preparazione accuratissima. Anche colà si ebbe la resa nell’istante preciso in cui si annunciò e si iniziò l’ attacco tedesco.

Valore del soldato tedesco

Faccio queste constatazioni, onorevoli deputati, per prevenire il crearsi di leggende storiche giacché, se se da questa campagna se ne volesse trarre una, sarà soltanto quella del moschettiere tedesco, che, negli assalti e nelle marce, ha aggiunto una nuova pagina alla sua imperitura e gloriosa storia. La leggenda può formarsi intorno alle armi pesanti, che accorsero in appoggio di tale fanteria con sforzi indicibili. Degni di tale leggenda sono i soldati dei nostri carri armati che con decisione temeraria, incuranti delle forze avversarie preponderanti, rinnovarono continuamente gli assalti, e finalmente la leggenda potrà glorificare quegli aviatori sprezzanti della morte che, pur sapendo che anche se rimasti illesi malgrado l’abbattimento del loro apparecchio, una volta scesi a terra col paracadute sarebbero stati terribilmente massacrati, continuarono con irremovibile tenacia le loro osservazioni, attaccando con bombe e mitragliatrici ovunque fosse stato loro comandato o si presentasse un obbiettivo. Lo stesso vale per gli eroi dei nostri sommergibili. Se uno Stato di 36 milioni di abitanti e di una tale potenza militare poté essere completamente annientato in quattro settimane e se durante tutto questo tempo non si verifica per il vincitore nemmeno un unico rovescio, non si può intravvedere in ciò la la grazia di una particolare fortuna, bensì la prova della più eccelsa istruzione militare, del miglior comando e del più inaudito coraggio.

Per le sue virtù militari il soldato tedesco ha saputo riporsi saldamente sul capo quella corona d’alloro, che nel 1918 gli era stata perfidamente rapita.

Noi tutti in profonda e commossa riconoscenza ci inchiniamo davanti ai tanti ignoti e coraggiosi uomini del nostro popolo tedesco. Per la prima volta, provenienti da tutte le regioni della Grande Germania, essi sono accorsi per adempiere al proprio dovere. Il sangue versato in comune li unirà fra di loro ancor più fortemente di qualsiasi organismo statale. La consapevolezza di questa potenza delle nostre forze armate ci riempie tutti di sicura tranquillità. Infatti esse non hanno soltanto dimostrato di essere forti nell’assalto, ma anche di sapere conservare le posizioni conquistate !

L’eccellente istruzione dei singoli ufficiali e dei soldati è stata luminosamente dimostrata. Ad essa si deve se le perdite furono così lievi, perdite che, se anche singolarmente dolorose, nel complesso sono molto inferiori a quanto ritenevamo di doverci attendere. La somma totale di tali perdite non riflette però la durezza dei singoli combattimenti. Vi furono dei reggimenti e delle divisioni che, attaccati da un numero preponderante di truppe polacche oppure scontratesi con esse durante il loro attacco, dovettero subire gravi perdite. Dalla grande serie di battaglie e di combattimenti che si succedettero con sì grande rapidità credo di dovervi menzionare, a guisa d’esempio, due soli episodi:

Allorché a copertura dell’armata del generale von Reichenau, che avanzava impetuosamente verso la Vistola ed aveva alla sua ala sinistra le divisioni dell’armata del generale Blaskowitz – le quali si dirigevano alla loro volta a scaglioni contro Varsavia, con l’ incarico di impedire l’attacco dell’ armata centrale polacca contro il fianco del generale d’armata von Reichenau – avvenne improvvisamente il loro urto con l’armata in marcia del generale Blaskowitz, e ciò proprio in un momento in cui si supponeva che, logicamente, le armate polacche si trovassero già in ritirata verso la Vistola. Fu un disperato tentativo dei polacchi per spezzare il cerchio di ferro che stava chiudendosi attorno a loro. Quattro divisioni polacche ed alcune formazioni di cavalleria si buttarono su un’unica divisione attiva tedesca che, trovandosi scaglionata su di un vasto fronte, doveva coprire una linea di quasi 30 chilometri. Nonostante una superiorità cinque o sei volte maggiore del nemico e nonostante lo spossamento delle proprie truppe, che da molti giorni marciavano combattendo, questa divisione sostenne l’attacco e lo respinse, in parte in un sanguinoso corpo a corpo, e non vacillò né si mosse finché non fu possibile far giungere sul posto i necessari rinforzi. E mentre la radio nemica già trionfalmente divulgava la notizia dello sfondamento della linea presso Lodz, il generale di divisione, gravemente ferito al braccio, mi comunicava i particolari dello svolgimento dell’attacco, l’azione che impedì lo sfondamento ed il valoroso contegno dei suoi soldati. Qui, naturalmente, le perdite furono grandi.

Una divisione territoriale tedesca ebbe assegnato, assieme ad altri esigui reparti, il compito di spingere i polacchi nella parte nord del Corridoio, di conquistare Gdynia e di avanzare in direzione della penisola di Hela. Di fronte a questa divisione territoriale stavano reparti scelti polacchi, truppe della marina da guerra, allievi ufficiali, marinai-artiglieri e cavalleria. Con tranquilla sicurezza, questa divisione territoriale tedesca si accinse alla risoluzione di un compito che le assegnava, quale nemico, un avversario molto superiore, anche numericamente. In pochi giorni i polacchi vennero respinti da una posizione all’altra, furono fatti 12.600 prigionieri, fu liberata Gdynia, presa in combattimento Oxhöft ed altri 4.700 uomini ricacciati ed accerchiati nella penisola di Hela. Allorquando furono evacuati i prigionieri, si presentò un quadro commovente: davanti ai vincitori – in maggioranza uomini attempati, molti dei quali portavano sul petto decorazioni della grande guerra – sfilarono le colonne di prigionieri, giovani sull’età dai 20 ai 28 anni.

Poiché mi accingo a rendere note le cifre dei nostri morti e feriti, vi prego di alzarvi in piedi. Sebbene queste cifre, grazie all’istruzione delle nostre truppe, alla potenza delle nostre armi ed alla competenza dei nostri comandi, non ammontino che alla ventesima parte di quelle che credevamo di dover temere all’inizio della campagna, non vogliamo peraltro dimenticare che ogni singolo che qui diede la sua vita, sacrificò, per il proprio popolo e per il nostro Reich, quanto di più grande un uomo può offrire alla patria. Secondo le liste del 30 settembre 1939, che non dovrebbero ormai subire cambiamenti rilevanti, nell’esercito, nella marina e nell’aeronautica, compresi gli ufficiali, sono morti: 10.572 uomini; feriti: 30.322 uomini; dispersi: 3.404 uomini. Di questi dispersi, una parte che cadde in mano dei polacchi, si deve purtroppo considerare come massacrata o uccisa. A queste vittime della campagna va la nostra gratitudine. Ai feriti le nostre cure, ai congiunti le nostre condoglianze e il nostro aiuto.

Il rapido trionfo

Colla caduta delle fortezze di Varsavia, Modlin e colla resa di Hela, la campagna polacca è finita. La sicurezza del paese contro i predoni, le bande di ladri ed i terroristi viene assicurata con ogni fermezza. Il risultato di questa battaglia è stato l’annientamento di tutte le armate polacche.

Ne seguì come conseguenza la dissoluzione di questo Stato. 694.000 prigionieri hanno iniziato la marcia su Berlino. Il bottino di materiale bellico è ancora incalcolabile.

Contemporaneamente, dall’inizio delle ostilità, le forze armate germaniche si tengono all’ovest e attendono il nemico con tranquillità. La marina da guerra del Reich ha compiuto il proprio dovere nei combattimenti intorno alla Westerplatte, Gdynia, Oxhöft e Hela e ha mantenuto la sicurezza del Baltico e della baia tedesca. La nostra arma sottomarina combatte in modo degno degli indimenticabili eroi del passato.

Con riguardo a questo collasso, unico nella storia, di un cosiddetto Stato, sorge per ognuno la domanda in merito alle cause di un simile processo, La culla dello Stato polacco fu Versaglia. Questa struttura statale nacque dagli enormi sacrifici di sangue, non dei polacchi, ma dei tedeschi e dei russi. Ciò che già nei secoli precedenti aveva dimostrato la sua incapacità di esistere venne, attraverso un Governo tedesco non meno incapace, costituito artificiosamente dapprima nel 1916 e creato poi, in modo non meno artificiale, nel 1919. Disprezzando un’esperienza di quasi mezzo millennio, senza curarsi della genesi di uno sviluppo storico di più secoli, senza riguardo delle condizioni etnografiche e senza tener conto di alcuna opportunità economica, venne edificato a Versaglia uno Stato che secondo tutta la sua natura, o prima o dopo, doveva diventare la causa di crisi di estrema gravità. Un uomo il quale oggi purtroppo è ridiventato uno dei nostri più rabbiosi avversari, previde allora tutto ciò con chiarezza: Lloyd George. Questi pure, come molti altri, fece ammonimenti non soltanto mentre si stava creando questa costruzione, bensì anche durante la sua successiva espansione, che fu intrapresa contro ogni buon senso e contro ogni diritto. Allora egli espresse il timore che si venisse istituendo in questo Stato un enorme quantità di cause di conflitto, le quali, o prima o poi, avrebbero potuto offrire motivi a gravi dissidi europei.

Il fatto è che questo cosiddetto nuovo Stato non ha potuto essere fino al giorno d’oggi chiaramente definito nella struttura delle sue nazionalità. È necessario conoscere i metodi dei censimenti polacchi per sapere quanto assolutamente lontane dalla verità, e quindi scevre d’importanza, fossero e sono le statistiche del complesso dei popoli di quel territorio. Nel 1919 furono rivendicati dai polacchi territori in cui essi pretendevano di possedere maggioranze del 95 %, p. es. nella Prussia Orientale, mentre poi nella votazione , che ebbe luogo più tardi, risultò per polacchi un’aliquota del 2 %. Nello Stato che fu quindi costituito esclusivamente a spese della Russia, dell’Austria e della Germania di allora, i popoli non polacchi furono così barbaramente maltrattati, oppressi, tiranneggiati e torturati, che ormai qualsiasi votazione dipendeva del beneplacito di questo o quel voivoda ed in tal modo si otteneva il risultato desiderato oppure un risultato falsato. Ed anche il solo elemento che era irrefragabilmente polacco riusciva a mala pena ad ottenere una valutazione più alta. Se questo complesso doveva, secondo gli uomini di Stato del nostro emisfero occidentale, rappresentare una democrazia, esso costituisce una vera ironia delle basi dei loro propri sistemi. Infatti, in questo paese in questo paese governava una minoranza di latifondisti, aristocratici o meno,e di ricchi intellettuali , per i quali il vero popolo polacco rappresentava nel caso più favorevole un massa di lavoratori. Questo regime non riposò perciò mai su più del 15 % di tutta la popolazione. Ad esso si dovettero le disastrose condizioni economiche ed il basso livello culturale. Nell’anno 1919 questo Stato ricevette dalla Prussia ed anche dall’Austria delle provincie progredite attraverso un faticoso lavoro secolare, ed in parte veramente fiorenti. Oggi, 20 anni dopo, stanno ridiventando a poco a poco steppa. La Vistola, e cioè il fiume il cui sbocco al mare fu per il Governo polacco sempre di così straordinaria importanza, si trova già ora, data la mancanza di ogni cura, inadatta per un traffico vero e proprio, ed a seconda della stagione è un torrente tumultuoso oppure un disseccato rigagnolo. Città e villaggi sono in completo abbandono. Le strade, tranne qualche rara eccezione, sono rovinate ed in preda all’incuria. Chi per la prima volta visita questo paese per due o tre settimane, può riuscire a farsi un’idea dell’ espressione: “Economia polacca!”

Tentativi per una soluzione pacifica

Nonostante le insopportabili condizioni in cui questo paese si trovava, la Germania ha tentato di allacciare con esso rapporti che fossero tollerabili. Io stesso mi sono sforzato, negli anni ’33- ’34, di concludere con questo paese un qualche giusto ed equo accomodamento, che conciliasse i nostri interessi nazionali con i desideri del mantenimento della pace. Ci fu un tempo – viveva ancora il maresciallo Pilsudski – in cui parve che si potesse riuscire a realizzare questa speranza, anche se in modesta misura. Per questo fine fu necessaria una pazienza inaudita ed una ancor più grande padronanza di se stesso. Poiché per molti dei voivoda polacchi l’accordo politico tra la Germania e la Polonia appariva soltanto come una patente di immunità per la persecuzione e l’annientamento, ormai scevro di ogni pericolo, dei gruppi etnici tedeschi. Nei pochi anni che precedettero il 1922, più di un milione e 200.000 tedeschi dovettero abbandonare l’antica patria. Ne furono scacciati, spesso senza poter neppure portare con sé gli indumenti più necessari. Quando nel 1938 il territorio dell’Olsa passò alla Polonia, essi si rivolsero, con gli stessi metodi contro i cechi, che colà abitavano. Molte migliaia di essi dovettero, spesso nello spazio di poche ore, abbandonare le loro officine, abitazioni, villaggi e città; a mala pena era loro concesso di portare con sé anche soltanto una valigia o una cassetta con i loro abiti. Così si svolgevano le cose in quello Stato, e per anni siamo stati ad osservare tutto ciò, sempre con l’intento di poter ottenere, forse per mezzo di restrizioni delle nostre relazioni politiche e statali, un miglioramento del destino dei tedeschi che colà vivevano in infelici condizioni. Però non si è potuto non tener conto del fatto che ogni tentativo tedesco di eliminare in questo modo questi gravi inconvenienti, fu considerato dai dominatori polacchi soltanto come un segno di debolezza. Forse anche come stoltezza. Poiché al Governo polacco importava ora di soggiogare a poco a poco, in mille modi, anche Danzica, io tentai con proposte adatte di giungere ad una soluzione, la quale avrebbe potuto riunire dal punto di vista nazional-politico e secondo il desiderio della popolazione, Danzica alla Germania, senza con ciò recar danno ai bisogni economici ed ai cosiddetti diritti della Polonia. Se oggi qualcuno afferma che si trattò qui di pretese con carattere di ultimatum, dice una menzogna. Infatti, le proposte di una soluzione sottoposte nel marzo 1939 al Governo polacco non erano nient’altro che suggerimenti ed i pensieri che erano stati già molto prima discussi da me personalmente con il ministro degli Esteri Beck. Però io credevo, nella primavera del 1939, di poter facilitare al Governo polacco, di fronte alla sua opinione pubblica, l’adesione a queste proposte mediante l’offerta di potergli concedere, come equivalente, una partecipazione alla garanzia di indipendenza richiesta dalla Slovacchia. Se il Governo polacco si rifiutò allora di entrare in discussione su quella proposta, ciò avvenne per due motivi:

Primo: le forze animatrici sciovinistiche, sobillate ed allineate dietro di esso non pensavano minimamente di risolvere la questione di Danzica, ma vivevano al contrario già nella speranza, più tardi manifestata pubblicisticamente e oratoriamente, di poter ottenere, ben oltre Danzica, anche territori germanici del Reich, ossia aggredirli e conquistarli. Questi desideri non si arrestarono alla Prussia Orientale; no, in un’ondata di pubblicazioni e con una serie continua di appelli, di discorsi, di risoluzioni, ecc., venne richiesta, oltre all’assorbimento della Prussia Orientale, l’annessione della Pomerania e della Slesia, si pretese come minimo la frontiera dell’Oder, ed infine si designò persino l’Elba come linea naturale di separazione fra la Germania e la Polonia. Queste richieste, oggi forse considerate pazzesche ma allora inoltrate con fanatica serietà, furono motivate in maniera addirittura ridicola con l’asserzione di una “missione civilizzatrice polacca” e furono addotte come autorizzate, perché attuabili, con l’accenno alla potenza delle armate polacche. Mentre io inviavo all’allora ministro degli Esteri polacco l’invito a delle conversazioni sulle nostre proposte, i periodici militari polacchi parlavano già della nullità dell’esercito tedesco, della viltà dei soldati tedeschi, della qualità scadente delle armi tedesche, dell’ovvia superiorità delle forze armate polacche e della sicurezza, nel caso di una guerra, di battere i tedeschi alle porte di Berlino e di annientare il Reich. L’uomo però che voleva «sminuzzare» le armate tedesche alle porte di Berlino non era un qualunque piccolo analfabeta polacco, ma il generalissimo Rydz-Smigly, attualmente in Romania. Tutte le violazioni e le offese che la Germania e le forze armate tedesche hanno dovuto subire da questi dilettanti militari non sarebbero state sopportate da nessun altro Stato, né del resto esse si potevano attendere da nessun altro popolo. Nessun generale francese e neanche inglese si sarebbe mai permesso un simile giudizio sulle forze armate germaniche e, inversamente, nessun tedesco sui soldati inglesi, francesi o italiani, così come ci fu dato di ascoltare e di leggere da anni e ripetutamente dal marzo 1939 da parte polacca. Ci voleva una grande forza di autopadronanza per restare calmi di fronte a questi insulti impertinenti e sfrontati, malgrado l’intima convinzione che le forze armate tedesche spezzerebbero in poche settimane questo Stato ridicolo ed il suo esercito, e lo spazzerebbero dalla superficie della terra. Tuttavia, questo atteggiamento spirituale, per il quale era responsabile la classe dirigente stessa in Polonia, formò la causa prima per cui il Governo polacco si rifiutò di sottoporre le proposte tedesche sia pure ad una discussione,

La seconda ragione fu quell’infausta promessa di garanzia data ad uno Stato che non era affatto minacciato e che però, ormai protetto da due potenze mondiali, si adattò rapidamente alla convinzione di poter provocare impunemente una grande potenza e forse sperò persino di poter giungere alle premesse per la realizzazione delle proprie folli ambizioni. Poiché, non appena la Polonia si seppe in possesso di questa garanzia ebbe inizio per le minoranze ivi residenti un vero regime di terrore. Io non ho il compito di parlare delle unità etniche ucraine e della Russia Bianca, i cui interessi vengono rappresentati dalla Russia. Ma ho il dovere di parlare della sorte di quelle centinaia di migliaia di tedeschi che furono i primi a portare, da molti secoli, la cultura in questo paese, tedeschi che ora si cominciò a scacciare, ad opprimere, a violentare e che infine, a partire dal marzo 1939, furono in balia di un vero regime di satanico terrore. Quanti di essi furono deportati, dove essi si trovano, non è stato possibile stabilire neanche oggi. Villaggi con centinaia di abitanti di razza tedesca non hanno più uomini. Essi sono stati completamente annientati. In altri invece si sono violentate e assassinate le donne, si è fatto scempio e si sono uccisi ragazze e bambini. Nell’anno 1911 l’inglese Sir George Carew scrisse nei suoi rapporti diplomatici al Governo britannico come le caratteristiche predominanti dei polacchi fossero la crudeltà e la sfrenatezza morale. Questa crudeltà non si è cambiata nei secoli da allora trascorsi. Così come in un primo tempo si massacrarono e si martoriarono a morte, in maniera sadica, diecine e diecine di migliaia di soldati tedeschi caduti prigionieri durante le ostilità. Questo pupillo delle democrazie dell’Europa Occidentale non appartiene affatto alle nazioni civili. Per oltre quattro anni, durante la grande guerra, fui al fronte occidentale. In nessuna delle parti belligeranti si verificò allora qualcosa di simile. Quello che però si è svolto negli ultimi mesi in questo paese e quello che è successo nelle ultime quattro settimane, rappresenta una unica accusa contro i fautori responsabili di un cosiddetto organismo statale, mancante di ogni premessa popolare, storica, culturale e morale.

Se soltanto l’uno per cento di tali orrori fosse stato consumato in un qualunque punto del mondo ai danni di inglesi, vorrei allora vedere gli indignati dabbenuomini che oggi con falso sdegno condannano l’azione tedesca o russa.

Irrigidimento polacco

No! Fornire a questo Stato e a questo Governo una garanzia, così come avvenne, non poteva condurre che alla più grave sciagura. Né il Governo polacco o la fazione su cui esso si appoggiava, né il popolo polacco come tale, erano in grado di valutare la responsabilità derivata da un tale impegno preso a loro favore da mezza Europa. Da questa passione sobillata da un lato, come pure dalla coscienza della sicurezza garantita alla Polonia ad ogni condizione, scaturì l’atteggiamento del Governo polacco nel periodo di tempo che va dal mese di aprile all’agosto di quest’anno. Ciò determinò anche la presa di posizione riguardo alle mie proposte di pacificazione. Il Governo respinse queste proposte, poiché esso si sentiva coperto o persino spinto dall’opinione pubblica, e l’opinione pubblica lo coprì e lo spinse a sua volta su questa via, perché essa non era stata meglio informata dal Governo e, soprattutto, perché essa si sentiva sufficientemente garantita in ogni suo atto verso l’esterno. Si doveva giungere così alla frequenza di terribili atti terroristici contro le unità etniche germaniche, al rifiuto di tutte le proposte di risoluzione e, infine ad attacchi sempre maggiori contro il territorio del Reich stesso. Con una tale mentalità era tuttavia ben comprensibile che si considerasse la magnanimità tedesca come debolezza, vale a dire ogni arrendevolezza tedesca venne considerata come la prova della possibilità di avanzare ulteriori pretese. Il monito al Governo polacco di non continuare più a molestare Danzica con ulteriori note aventi carattere di ultimatum e sopratutto di non strangolare alla lunga economicamente la città, non portò a nessuna distensione, ma, al contrario, alla completa paralisi delle comunicazioni della città stessa.

L’ammonimento di smetterla alfine con le continue fucilazione, con i perenni maltrattamenti e supplizi dei tedeschi e la minaccia di opporvisi, portò invece ad un accentuamento (sic.) di queste crudeltà ed a più violenti richiami e discorsi sobillatori da parte dei voivoda polacchi e dei capi supremi militari. Alle proposte germaniche per giungere ancora all’ultimo momento ad un accordo giusto e ragionevole, si rispose con la mobilitazione generale. Alla richiesta tedesca (conforme al suggerimento fatto dalla stessa Inghilterra) d’inviare un parlamentare, non si dette seguito ed al secondo giorno si rispose anzi con una dichiarazione addirittura offensiva. In queste condizioni appariva evidente che, in caso di ulteriori aggressioni contro il territorio del Reich, la pazienza tedesca sarebbe giunta al limite. Ciò che i polacchi avevano falsamente interpretato come debolezza, era in effetti la nostra coscienza della responsabilità e la mia volontà di giungere ancora, se possibile, ad una intesa. Siccome però essi credevano che questa pazienza e questa longanimità, ritenute debolezza, permettessero loro ogni cosa, non rimase altra via che d’illuminarli su questo loro errore ed infine di rispondere con quei mezzi, di cui essi stessi avevano fatto uso da anni. Sotto questi colpi lo Stato polacco in poche settimane è andato in frantumi ed è stato spazzato via. Con ciò è stata eliminata una delle più assurde opere di Versaglia.

L’accordo russo-tedesco

Se ora, in questa azione della Germania si è manifestata una comunità d’interessi con la Russia, tale comunità non si basa soltanto sull’unità dei problemi interessanti i due paesi, bensì anche sulla identità di vedute che entrambi gli Stati hanno acquistato nei riguardi dello sviluppo dei reciproci rapporti. Ho già rilevato nel mio discorso di Danzica, che la Russia è organizzata secondo principi diversi dai nostri. Però, da quando risultò che il signor Stalin non vedeva in questi principi sovietici ragione di ostacolo a intrattenere amichevoli rapporti con Stati di differente punto di vista, anche la Germania nazionalsocialista non vede ragione, dal canto suo, di applicare un altro sistema di misura. La Russia sovietica è la Russia sovietica, la Germania nazionalsocialista è la Germania nazionalsocialista. Una cosa però è certa: nello stesso momento in cui i due Stati rispettano reciprocamente i loro differenti regimi ed i loro principi, viene a mancare ogni ragione per un qualsiasi vicendevole atteggiamento ostile. In lunghi periodi storici del passato si è dimostrato che i popoli di queste due più grandi nazioni d’Europa sono stati particolarmente felici quando vissero in amicizia reciproca. La grande guerra, che già Germania e Russia condussero l’una contro l’altra, divenne una disgrazia per i due paesi. È comprensibile che specialmente gli Stati capitalistici dell’Occidente, abbiano oggi un interesse di mettere in gioco, se possibile, l’un contro l’altro i due stati ed i loro principi. Essi, a questo scopo ed in questa misura, considererebbero la Russia sovietica sufficientemente distinta, per concludere con essa utili alleanze militari. Essi ritengono però una perfidia se questo onorevole avvicinamento vien rifiutato e se, in sua vece, si realizza un avvicinamento fra quelle Potenze, le quali hanno tutte le ragioni di cercare la felicità dei loro popoli in una comune collaborazione pacifica e nello sviluppo dei loro rapporti economici. Già un mese fa ho dichiarato al Reichstag, che la conclusione del patto di non aggressione tedesco-russo rappresenta una svolta nell’intera politica estera della Germania. Il nuovo patto di amicizia e d’interessi, concluso nel frattempo fra la Germania e la Russia sovietica, renderà possibile fra gli Stati non soltanto la pace, ma anche una felice e duratura collaborazione.

La Germania e la Russia spoglieranno del suo minaccioso carattere uno dei più pericolosi punti d’Europa, contribuendo, ognuna nel suo ambito, al benessere degli uomini che vi vivono e con ciò alla pace europea. Se oggi certi ambienti vogliono scorgere in ciò. a seconda dei bisogni, ora una sconfitta della Russia ed ora una sconfitta della Germania, vorrei dar loro la seguente risposta:

Da molti anni si sono attribuiti alla politica tedesca degli obiettivi che potrebbero scaturire tutt’al più dalla fantasia d’uno studente di ginnasio. In un momento in cui la Germania lotta per il consolidamento di uno spazio vitale che comprende soltanto poche centinaia di migliaia di km quadrati, giornalisti sfrontati di nazioni, le quali dominano su 40 milioni di km quadrati, affermano che la Germania miri da parte sua al dominio del mondo. Gli accordi tedesco-russi dovrebbero rappresentare, proprio per questi premurosi avvocati della libertà mondiale, un motivo straordinario di tranquillità, poiché mostrano loro, certo nella maniera più autentica, che tutte queste asserzioni di mire tedesche verso gli Urali, l’Ucraina, la Rumenia, ecc., erano soltanto un prodotto della loro malata fantasia utopistica. In una cosa però la decisione della Germania è irrevocabile, e cioè: determinare anche all’est del nostro Reich condizioni pacifiche, stabili e, quindi, sopportabili. Ed appunto qui gli interessi tedeschi si accordano perfettamente con quelli della Russia sovietica. Questi due Stati sono decisi a non permettere che sorgano fra di essi situazioni problematiche che covino in sé il germe di inquietudini interne e quindi, anche di perturbamenti esterni che potessero pregiudicare in qualche modo i rapporti reciproci delle due grandi Potenze. La Germania e la Russia sovietica hanno tracciato perciò un confine netto delle rispettive sfere di interessi, decise ognuna per la sua parte a mantenere la tranquillità e l’ordine e ad impedire tutto ciò che potrebbe recar danno all’altro contraente. Gli scopi e i compiti risultanti dal crollo dello Stato polacco, per quanto riguarda la sfera degli interessi tedeschi sono press’a poco i seguenti:

Premesse per la pacificazione

1. – Dare al Reich un confine che risponda alle evidenze storiche, etnografiche ed economiche.

2. – Pacificare tutto quanto il territorio dando ad esso una tranquillità ed un ordine soddisfacenti.

3. – Garantire in modo assoluto la sicurezza non solo del Reich, ma di tutta la zona d’interessi.

4. – Procedere al riordinamento, alla ricostruzione della vita economica, del traffico e, quindi, anche dello sviluppo culturale e civile.

5. – Compito più importante però: un ordinamento nuovo della situazione etnografica, ossia un trasferimento di gruppi nazionali in modo che al termine dello sviluppo risultino linee di separazioni migliori di quelle odierne. In tal senso non si tratta di un problema limitato a questi territori, ma di un compito che di molto li sorpassa. L’intero Est ed il Sud-Est dell’Europa sono infatti in parte pieni di frammenti dispersi di popolazione germanica. In essi appunto deve scorgersi un motivo ed una causa di continui perturbamenti internazionali. Nell’epoca del principio delle nazionalità e del pensiero razziale è utopia credere che si possano assimilare senz’altro questi elementi di un popolo di cultura superiore. Fa parte quindi dei compiti di un ordinamento lungimirante della vita europea, procedere qui a scambi di popolazioni intesi ad eliminare in tal modo una parte almeno della materia di conflitto in Europa. La Germania e l’Unione delle Repubbliche sovietiche hanno convenuto di darsi a questo riguardo reciproco aiuto. Il Governo del Reich non permetterà mai che lo Stato residuale polacco nascente, possa divenire un qualsiasi elemento perturbatore per il Reich stesso, o addirittura sorgente di perturbazioni fra la Germania e la Russia sovietica. Assumendosi quest’opera di risanamento, la Germania e la Russia sovietica possono ben a ragione far notare che il tentativo di risolvere il problema coi metodi di Versaglia è totalmente fallito. E doveva fallire perché tali compiti non si possono mai risolvere sul tappeto verde o ricorrendo semplicemente ad imposizioni. La maggior parte degli statisti che, a Versaglia, furono chiamati a giudicare su questi complessi problemi, non possedevano la benché minima preparazione storica, e, spesso, non avevano nemmeno una pallida idea della natura del compito loro affidato. Ma non avevano nemmeno una responsabilità qualsiasi per le conseguenze delle loro azioni. Riconoscere che l’opera loro poteva forse non essere giusta non aveva alcuna importanza, perché in pratica non esisteva la via per giungere ad una reale revisione. Nello stesso trattato di Versaglia era previsto, infatti, che la possibilità di una tale revisione dovesse rimanere aperta, ma in realtà tutti i tentativi di giungere ad essa fallirono, e tanto più dovevano fallire quando la Società delle Nazioni cessò, quale sede competente, di potersi pretendere intimamente giustificata alla applicazione di una tale procedura. Dopo che l’America per prima si rifiutò di sanzionare il trattato di pace di Versaglia e di entrare persino a far parte della Società delle Nazioni, e quando ulteriormente anche altri popoli credettero di non poter conciliare più la loro presenza in quel consesso con gli interessi dei loro paesi, quell’associazione si ridusse sempre più ad un circolo di interessati al diktat di Versaglia. È comunque un fatto positivo che nessuna delle revisioni riconosciute fin dal principio necessarie avvenne per mezzo della Società delle Nazioni. Essendo invalso nell’epoca nostra l’uso di continuare a considerare come esistente un Governo fuggiasco, anche se consta di soli tre membri, purché abbia preso seco tanto oro da non pesare economicamente sui paesi democratici ospitanti, è da ritenere che anche la Società delle Nazioni continuerà coraggiosamente a sussistere, anche se solo due nazioni vi si raccolgano. Alla fine basterà forse anche una sola! Ma secondo lo statuto della Lega ogni revisione delle clausole di Versaglia dipenderebbe anche allora esclusivamente da quell’illustre Società, cioè, in altri termini, sarebbe praticamente impossibile. Ora la Società delle Nazioni non è nulla di vivo, ma è già oggi qualcosa di morto; i popoli colpiti, invece, non sono morti, ma vivono. Essi riusciranno a far valere i propri interessi vitali anche se la Società delle Nazioni dovesse essere incapace di vederli, di intenderli o di tenerne conto. II Nazionalsocialismo non è, quindi, un fenomeno sviluppatosi in Germania per impedire malignamente alla Società delle Nazioni di realizzare i suoi sforzi revisionistici, bensì un movimento nato dal fatto che per 15 anni essa impedì la revisione dell’oppressione dei più elementari diritti umani e nazionali di un grande paese. Ed io, per parte mia non ammetto che uno statista straniero si levi a dichiarare che sono un fedifrago perché ho ora realizzato tale revisione. Al contrario, io ho preso di fronte al popolo tedesco l’impegno sacrosanto di eliminare il trattato di Versaglia e di restituirgli il suo naturale diritto all’esistenza quale grande nazione. Le proporzioni nelle quali io assicuro tale diritto vitale sono modeste. Se 46 milioni di inglesi pretendono di dominare su 40 milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre, non è un’ingiustizia se 82 milioni di tedeschi rivendichino il diritto di vivere un’area di 800.000 km quadrati, di coltivarvi i loro campi e di attendervi alle arti loro. Né che chiedano inoltre la restituzione di quei possedimenti coloniali che già loro appartennero, che non avevano tolto a nessuno né con la rapina né con la guerra, ma che avevano lealmente ottenuto mediante compera, baratto od accordi. Inoltre, per tutte le rivendicazioni che affacciai, cercai sempre in primo luogo di ottenere la revisione per mezzo di trattative, Ho rifiutato, tuttavia, di presentare i diritti vitali della Germania, come umilissima preghiera, a un qualsiasi consorzio internazionale incompetente! Come non credo la Gran Bretagna disposta a supplicare che siano rispettati i suoi diritti vitali, così non ci si deve aspettare che lo faccia la Germania nazionalsocialista. Ma io – debbo dichiararlo qui solennemente – ho limitato straordinariamente la misura di tali revisioni del trattato di Versaglia. Specialmente in tutti quei casi in cui non vedevo minacciati i naturali interessi vitali del mio popolo, ho consigliato io stesso a questo, di accontentarsi e di fare delle rinunce. Ma, in qualche luogo, questi 80 milioni debbono pur vivere. Vi è una realtà, infatti, che nemmeno il trattato di Versaglia ha potuto eliminare: esso, nel modo più assurdo, ha bensì disciolto Stati, dilaniato zone economiche, tagliato linee di comunicazione, e così via; ma i popoli, cioè la sostanza viva fatta di carne e di sangue, è rimasta, e rimarrà anche in avvenire.

La Germania e i suoi confinanti

Ora è incontestabile che, dacché il popolo tedesco ha avuto e trovato nel Nazionalsocialismo la propria resurrezione, si è prodotta in larga misura una chiarificazione dei rapporti fra la Germania e il mondo circostante. La mancanza di sicurezza che grava oggi sulla convivenza dei popoli non deriva già da rivendicazioni tedesche, ma dai sospetti seminati dai pubblicisti delle cosiddette democrazie. Le rivendicazioni tedesche sono state presentate in modo ben chiaro e preciso. Hanno peraltro trovato adempimento non già in grazia della comprensione della Società delle Nazioni ginevrina, ma grazie al dinamismo dell’evoluzione naturale. Il fine della politica estera del Reich, da me diretta, non fu mai d’altronde se non quello d’assicurare al popolo tedesco l’esistenza e quindi la vita, d’eliminare le iniquità e stoltezze d’un trattato che rovinò economicamente non solo la Germania, ma trascinò del pari a rovina le nazioni vittoriose. Del resto tutto il lavoro di ricostruzione del Reich fu opera rivolta al di dentro. In nessun paese del mondo, quindi, l’anelito alla pace fu più profondo che nel popolo tedesco. È una fortuna, non una sfortuna per l’umanità, che io sia riuscito ad eliminare pacificamente le più folli assurdità del trattato di Versaglia, senza suscitare difficoltà interne agli statisti stranieri. S’intende che tale eliminazione poté essere a volte dolorosa per taluno degli interessati. Ma tanto maggiore è certo il pregio del fatto che la nuova sistemazione si compì in tutti i casi, eccetto l’ultima, senza spargimento di sangue. E l’ultima revisione di quel trattato avrebbe potuto avvenire in via pacifica, precisamente come le altre, se le due circostanze ricordate non avessero sortito l’effetto opposto. Ma ne hanno colpa anzitutto coloro che non solo non si rallegravano delle precedenti revisioni, pacifiche, ma all’opposto si dolevano di veder sorgere in via pacifica una nuova Europa centrale, una Europa centrale che a poco a poco poteva ridare lavoro e pane ai suoi abitanti.

Ho già detto che uno degli scopi del Governo del Reich era quello di dare chiarezza ai rapporti fra noi ed i nostri vicini. Citerò qui fatti che non possono venir cancellati dagli scribacchiamenti di mendaci gazzettieri internazionali.

I. – La Germania ha conchiuso patti di non aggressione con gli Stati baltici. I suoi interessi sono colà di natura esclusivamente economica.

2. – La Germania non ha avuto nemmeno in passato conflitti di interessi, nonché punti controversi, con gli Stati nordici, e così non ne ha oggi. Svezia e Norvegia hanno entrambe ricevuto dal Reich l’offerta di patti di non aggressione e li hanno rifiutati soltanto perché dal canto loro non si sentivano minacciate in nessun modo.

3. – Di fronte alla Danimarca la Germania non ha tratto alcuna conseguenza dal distacco di territorio tedesco operato col trattato di Versaglia; all’opposto ha stabilito con la Danimarca leali ed amichevoli rapporti. Noi non abbiamo affacciato alcuna esigenza di revisione, ma concluso con la Danimarca un patto di non aggressione. I rapporti con tale Stato si indirizzano quindi ad una immutabile, leale ed amichevole collaborazione.

4. – Olanda: il nuovo Reich ha cercato di continuare la tradizionale amicizia con l’Olanda; non ha ereditato alcun dissidio tra i due Stati e non ne ha creato altri.

5 – Belgio: Subito dopo assunto il potere, io mi adoperai a rendere amichevoli i rapporti col Belgio. Ho rinunciato a qualsiasi revisione od aspirazione analoga. Il Reich non ha presentato alcuna richiesta che fosse in qualsiasi modo atta ad apparire minacciosa al Belgio,

6. – Svizzera: Lo stesso atteggiamento è tenuto dalla Germania verso la Svizzera. Il Governo del Reich non ha mai dato occasione al benché minimo dubbio circa il proprio desiderio di rapporti leali fra i due paesi. Del resto neanche esso ha mai espresso alcuna lagnanza circa rapporti fra i due paesi.

7. – Subito dopo l’«Anschluss» io ho notificato alla Jugoslavia che anche con essa la Germania considerava ormai immutabile la frontiera e che ora desideriamo soltanto di vivere in pace e in amicizia con lei.

8. – Con l’Ungheria siamo uniti da molti anni da un tradizionale vincolo di stretta e cordiale amicizia. Anche qui i confini sono immutabili.

9. – La Slovacchia, al momento di nascere, ha essa stessa espresso alla Germania il desiderio di essere aiutata. La sua indipendenza è riconosciuta dal Reich e viene scrupolosamente rispettata.

L’amicizia italiana

La Germania non ha soltanto chiarito e regolato i suoi rapporti con questi Stati, rapporti che purtuttavia erano in parte aggravati dal trattato di Versaglia, ma anche con le grandi Potenze.

Ho realizzato, insieme al Duce, un mutamento nei rapporti del Reich nei confronti dell’Italia. I confini esistenti fra i due Stati vennero solennemente riconosciuti come immutabili dai due Imperi. Venne eliminata ogni possibilità di contrasti d’interessi di natura territoriale. Gli antichi avversari della guerra mondiale sono divenuti nel frattempo cordiali amici. Non ci si è limitati a normalizzare i rapporti; in seguito siamo giunti alla stipulazione di un patto ideologicamente e politicamente molto stretto; che si è dimostrato un forte elemento della collaborazione europea.

Mi sono soprattutto adoperato a disintossicare i rapporti con la Francia e a renderli sopportabili per le due nazioni. Precisai qui una volta con estrema chiarezza le pretese tedesche e non mi sono mai dipartito da tale dichiarazione. La restituzione del territorio della Saar era l’unica rivendicazione che io consideravo come premessa assolutamente indispensabile per un’intesa fra la Germania e la Francia. Dopo che la Francia stessa risolse lealmente questo problema, cadde senz’altro ogni altra pretesa tedesca verso di essa; non esiste più una rivendicazione analoga, né ne verrà mai sollevata un’altra. Mi spiego: ho rinunciato a porre persino in discussione il problema dell’Alsazia-Lorena, non perché vi fossi stato costretto, ma perché questa questione non costituisce menomamente un problema atto a creare un giorno difficoltà nei rapporti franco-tedeschi. Accettai la decisione dell’anno 1919 e mi rifiutai di ricominciare prima o dopo, per una tale questione, una guerra cruenta che non sta in nessun rapporto con le necessità vitali della Germania, ma che è invece destinata a far piombare in una lotta infausta una generazione sì e l’altra no. La Francia lo sa. È impossibile che un qualsiasi uomo di Stato francese sorga e dichiari che io abbia mai posto una richiesta alla Francia, la cui realizzazione fosse incompatibile con l’onore o con gli interessi francesi. Invece di una rivendicazione ho espresso alla Francia soltanto un unico desiderio, quello di sotterrare per sempre l’antica inimicizia e di avviare le due nazioni verso una reciproca intesa, compatibile con il loro grande passato storico. Presso il popolo tedesco ho compiuto tutto quanto era possibile per estirpare l’idea di una fatale inimicizia ereditaria e per inculcare al suo posto la stima per le grandi realizzazioni del popolo francese e per la sua storia, allo stesso modo che ogni soldato tedesco sente la più alta stima di fronte all’incontestabile valore delle forze armate francesi .

Non minori furono i miei sforzi per un’intesa tedesco-inglese, anzi per un’amicizia fra i due paesi. Giammai ed in nessun luogo ho veramente contrastato gli interessi britannici. Purtroppo ho dovuto invece, ben sovente, difendere interessi tedeschi contro ingerenze britanniche, anche là dove essi non pregiudicavano in nessunissima maniera gli interessi dell’Inghilterra. Ho sempre considerato come compito precipuo della mia vita di avvicinare i due popoli, non soltanto dal punto di vista della ragione, ma anche da quello del sentimento. Il popolo tedesco mi ha seguito volonterosamente anche su questa via. Se le mie premure in questo senso fallirono, ciò fu dovuto esclusivamente al fatto che, presso una parte degli uomini di Stato e dei giornalisti britannici, è radicata contro la mia persona un’inimicizia di tale violenza, che essi non fanno mistero alcuno del loro unico obbiettivo, che è quello di riprendere, per ragioni a noi inesplicabili, alla prima occasione che si presenti, la lotta contro la Germania. Tanto meno questi uomini posseggono delle ragioni positive per una tale impresa, tanto più essi cercano di motivare e di mascherare una tale loro intenzione con delle frasi e delle affermazioni assolutamente prive di senso. Credo però ancor oggi che una vera pacificazione in Europa e nel mondo sia soltanto possibile qualora la Germania e l’Inghilterra riescano ad intendersi. In base a tale mia convinzione mi sono ben sovente messo sul cammino di una tale intesa. Se alla fine non si è poi giunti al risultato desiderato, ciò non fu veramente mia colpa.

Infine, ho cercato di normalizzare i rapporti del Reich con la Russia dei Sovieti, per portarli finalmente su di una base amichevole. Grazie ad uguali intendimenti di Stalin, sono riuscito anche in questo. Anche con questo Stato vennero creati dei rapporti d’amicizia duratura, le cui conseguenze saranno benefiche per entrambi i popoli.

Nel complesso, la revisione da me compiuta del trattato del V non ha creato in Europa nessun caos, ma bensì le premesse per chiari, stabili e soprattutto sopportabili rapporti. Soltanto colui che odia quest’ordine nei rapporti europei e desidera il disordine, può esser nemico di tali azioni. Se peraltro si ritiene di poter respingere con faccia tosta i metodi, grazie ai quali è sorto un sopportabile ordine nello spazio centro-europeo, allora posso solo rispondere che, alla fine dei conti, non è tanto importante il metodo, quanto il successo pratico, Prima della mia andata al potere l’Europa centrale e precisamente non soltanto la Germania, ma anche gli Stati circostanti, furono colpiti da una desolante disoccupazione. Le produzioni diminuirono e con ciò si ridusse anche forzosamente il consumo. Il tenore medio della vita si abbassò, e calamità e miseria ne furono le conseguenze. Nessuno degli uomini politici che sono sempre pronti a criticare può mettere in dubbio che, non solamente nel vecchio Reich, ma ora anche nei territori a lui uniti, si è riusciti ad allontanare queste manifestazioni di rovina economica, e ciò nelle condizioni più difficili.

Si è così dimostrato che questo spazio centro-europeo è vitale solamente a condizione di costituire un tutto organico e che colui che lo smembra, commette un crimine contro milioni di uomini. L’aver eliminato crimine non significa aver mancato alla parola data ma costituisce il mio onore, il mio orgoglio e una grande impresa storica. Né il popolo tedesco, né io stesso siamo legati da giuramento al trattato di Versaglia; io sono responsabile unicamente del benessere del mio popolo, del quale sono il mandatario, e di quello di coloro che il destino ha posto nell’ambito del nostro spazio vitale, legandoli, in tal modo, indissolubilmente al nostro proprio benessere.

La mia unica preoccupazione è quella di assicurare loro l’esistenza e con ciò la vita. Il tentativo di voler criticare questo mio modo di agire dalla cattedra di una prepotenza internazionale, di volerlo giudicare o condannare, è antistorico e mi lascia freddo. II popolo tedesco mi ha eletto colla sua fiducia, e qualunque tentativo di critica straniera o di intromissione non riuscirà che a rafforzarlo in questo suo atteggiamento a mio riguardo.

Necessità vitali dei popoli

D’altronde ho fatto precedere ogni singola revisione da relative proposte. Io ho tentato, a mezzo di trattative, di raggiungere e di assicurare quanto assolutamente necessario. Anche questo mi è riuscito in una serie di casi. In altri casi invece, la mi volontà di trattare e anche spesso la poca entità delle mie richieste e la modestia delle mie proposte fu considerata quale debolezza e pertanto respinta. A nessun altro ciò ha fatto maggior dispiacere quanto a me stesso. Però, nella vita dei popoli esistono necessità che, se non trovano realizzazione in via pacifica, devono venir risolte con la forza.

Ciò potrà sembrare deplorevole, ma vale tanto per la vita dei singoli cittadini come per quella della collettività. Il principio secondo il quale interessi supremi della collettività non possono venir lesi dalla cocciutaggine o addirittura dalla cattiva volontà dei singoli individui, è indiscutibilmente giusto. lo ho sottoposto anche alla Polonia le più moderate proposte. Esse non solo vennero respinte ma condussero, al contrario, alla mobilitazione generale di questo Stato, con una motivazione che lascia chiaramente intravedere come, proprio nella modestia delle mie proposte, si credette di vedere la conferma della mia debolezza, alla fine direi quasi della mia paura.

Effettivamente questa esperienza dovrebbe proprio sconsigliare dal fare proposte sensate e moderate. Anche in questi giorni leggo in certi giornali, come ogni tentativo di regolamento pacifico dei rapporti tra la Germania, da una parte, e l’Inghilterra e la Francia dall’altra, è da escludersi, e che una proposta in questo senso dimostra solamente che io, pieno di timore, vedo innanzi a me il crollo della Germania e che pertanto avanzo questa proposta solo per viltà o per cattiva coscienza. Se io ora, ciononostante, rendo noto il mio pensiero in merito a questo problema, significa che accetto di passare, agli occhi di questa gente, per un vile o per un disperato. Io mi posso permettere anche questo, poiché il giudizio su di me non verrà dato nella storia, grazie a Dio, da questi compassionevoli scribacchini, ma è fissato per sempre dall’opera della mia vita. E inoltre il giudizio di questa gente mi è abbastanza indifferente in questo momento. Il mio prestigio è abbastanza grande da permettermi qualche cosa di simile. Poiché, se io esprima questi miei pensieri veramente per paura o per disperazione, lo dimostrerà, in ogni caso il corso futuro degli avvenimenti. Oggi, tutt’al più posso deplorare che gente la quale, per la sua sete di sangue, non vede mai abbastanza guerre, non sia purtroppo colà, dove la guerra viene realmente combattuta e che, anche prima di oggi, non siano stati dove si è sparato. Io capisco perfettamente che vi sono persone interessate che hanno più da guadagnare da una guerra che da una pace, e io comprendo inoltre che, per una certa sottospecie di giornalisti internazionali, è più interessante fare dei resoconti sulla guerra che sulle trattative o magari sulle opere culturali di una pace, che essi non apprezzano e non comprendono. E infine mi è molto chiaro che un certo capitalismo e giornalismo giudaico-internazionale non interpreta affatto il sentimento dei popoli, i cui interessi pretende di rappresentare, ma che quali Erostrati della società umana, vedono nella propagazione dell’incendio, il più grande successo della loro esistenza.

Io ritengo anche, per un altro motivo, di dover far sentire la mia voce. Se io leggo oggi certi organi della stampa internazionale o se ascolto i discorsi dei diversi, focosi guerrafondai, credo allora di poter parlare e rispondere in nome di coloro che hanno fornito la materia viva per l’attività spirituale di questi bellicisti, quella materia viva, ripeto, alla quale io stesso ho appartenuto, quale soldato sconosciuto, per ben quattro anni, durante la grande guerra. Certo fa un effetto “grandioso”, sentire un uomo di Stato o un giornalista insorgere e proclamare, con parole infuocate, la necessità di eliminare il regime in un altro paese, in nome della democrazia o di qualcosa di simile.

La messa in pratica di questa fraseologia enfatica è poi in realtà alquanto diversa. Si scrivono oggi articoli di giornali, i quali sono sicuri dell’entusiastico plauso di un distinto pubblico di lettori. La realizzazione delle richieste che si trovano in questi articoli ha però effetti molto meno entusiasmanti. Non voglio parlare qui della capacità di giudizio o della competenza di questa gente. Essi possono scrivere tutto quel che credono, ma la vera natura di tale controversia non viene mutata. Prima della campagna polacca questi pennaioli affermavano che la fanteria tedesca non era forse cattiva, ma aggiungevano che i carri armati – e sopratutto le formazioni motorizzate – erano scadenti e che ad ogni loro impiego avrebbero mancato allo scopo. Adesso – dopo l’annientamento della Polonia – quelle stesse persone scrivono con sfacciataggine, che le armate polacche crollarono esclusivamente per merito dei carri armati e di tutti i reparti motorizzati del Reich, ma che per contro la fanteria tedesca ha peggiorato in modo veramente notevole e che in ogni urto coi polacchi ha avuto la peggio. “In ciò – dice testualmente uno di quei tali pennaioli – si può scorgere, e con ragione, un sintomo favorevole per la guerra in Occidente, ed il soldato francese saprà ben prender nota di ciò”.

Lo credo anch’io, a condizione ch’egli riesca realmente a prenderne visione coi propri occhi e che possa anche ricordarsene più tardi. Probabilmente egli andrà poi a dare una tirata d’orecchie a quell’individuo di cose militari. Ma purtroppo ciò sarà impossibile, perché quella gente non va a controllare di persona la bravura o la inettitudine della fanteria tedesca sui campi di battaglia, bensì rimane nelle sue redazioni a farne la descrizione. Sei settimane – che dico, 14 giorni di fuoco tambureggiante – basterebbero perché i signori guerrafondai se ne facessero un’altra opinione. Essi parlano sempre di un necessario evento politico, di portata mondiale ma essi non conoscono il decorso militare delle cose. Tanto meglio, lo conosco però io, e perciò ritengo essere mio dovere di parlare qui, pur esponendomi al pericolo che i guerrafondai credano veder di nuovo in questo mio discorso solo l’espressione del mio timore ed un sintomo del grado della mia disperazione.

Per quale ragione deve aver dunque luogo la guerra in occidente? Per la ricostituzione della Polonia?

La Polonia di Versaglia non risorgerà

La Polonia del Trattato di Versaglia non risorgerà mai più. Lo garantiscono due dei più grandi Stati della terra. La definitiva sistemazione di questo territorio, il problema della ricostituzione di uno Stato polacco, sono quesiti che non vengono risolti dalla guerra in occidente, bensì soltanto da parte russa, in un caso, e da parte tedesca, in un altro. D’altro lato, ogni esclusione di queste due Potenze dai territori in questione non porterebbe alla costituzione di uno Stato, ma ad un caos completo. I problemi che ivi sono da risolvere, non vengono risolti né al tavolo di una conferenza, né nell’ufficio di una redazione, bensì da un lavoro della durata di un decennio. Non è sufficiente che alcuni uomini di Stato, i quali alla fin dei conti non sono neppure interessati al destino dei colpiti, si riuniscano e prendano delle decisioni; è invece necessario, che qualcuno, che sia partecipe della vita di questo territorio, si incarichi del lavoro di ricostruzione di uno stato di cose veramente durevole. La competenza delle democrazie occidentali riguardo alla sistemazione di tale ordinato stato di cose non si è palesata affatto, per lo meno negli ultimi tempi. L’esempio della Palestina mostra che sarebbe stato meglio occuparsi dei compiti attuali per risolverli con ragionevolezza, anziché occuparsi di problemi che si trovano nell’ambito della vita e degli interessi di altri popoli, i quali certo li avrebbero risolti meglio. Comunque la Germania ha assicurato non soltanto la calma e l’ordine nel suo Protettorato di Boemia e Moravia, ma soprattutto ha anche gettato le basi per una nuova rinascita economica e per una sempre più intima comprensione tra le due nazioni. L’Inghilterra avrà ancora molto da fare prima di poter mostrare risultati simili nel suo protettorato palestinese.

Del resto si sa benissimo che sarebbe pazzia il distruggere milioni di vite umane e centinaia di miliardi di beni per ristabilire un organismo che già fin dalla sua origine fu definito da tutti i non polacchi come un aborto. Quale ne sarebbe l’altro motivo? Ha imposto forse la Germania all’Inghilterra una qualche pretesa che minacciasse l’Impero britannico o che ponesse in forse la sua esistenza? No, al contrario, La Germania non ha rivolto una simile pretesa né alla Francia né all’Inghilterra. Ma qualora questa guerra dovesse essere veramente fatta per dare alla Germania un nuovo regime, vale a dire per abbattere di nuovo il Reich attuale e per giungere con ciò ad una nuova Versaglia, allora milioni di uomini verrebbero sacrificati senza scopo, poiché né verrà abbattuto il Reich, né verrà ristabilita una seconda Versaglia. E quand’anche ciò dovesse riuscire dopo una guerra di tre o di quattro o di otto anni, questa seconda Versaglia diventerebbe in seguito nuovamente fonte di altri conflitti. Ma in ogni caso una sistemazione dei problemi del mondo, che non tenesse conto degli interessi vitali dei suoi popoli più forti, non potrebbe concludersi dopo 5 o 10 anni diversamente dalla conclusione attuale del tentativo di vent’anni fa. No, questa guerra all’occidente non regola nessun problema, ma tutt’al più restaurerà le finanze rovinate di alcuni industriali di forniture belliche e di padroni di giornali o di altri guerrafondai internazionali.

l fini del Reich

Due problemi s’impongono oggi alla discussione:

1) La sistemazione dei problemi sorti dallo sfacelo della Polonia, e

2) il problema della eliminazione di quelle preoccupazioni internazionali, che rendono politicamente ed economicamente difficile la vita dei popoli.

Quali sono ora i fini del Governo del Reich riguardo all’ordinamento dello stato di cose nello spazio che ad ovest della linea di demarcazione tedesco-russo-sovietica è riconosciuto come zona di influenza tedesca?

1) La creazione di una frontiera del Reich che – come già messo in rilievo – corrisponda alle condizioni storiche, etnografiche ed economiche.

2) La sistemazione di tutto lo spazio vitale in base alle nazionalità, e cioè la risoluzione di quei problemi delle minoranze che non tocchino soltanto questo spazio, ma che riguardano oltre a ciò quasi tutti gli Stati meridionali e sud-orientali dell’Europa.

3) In tale rapporto: il tentativo dell’ordinamento e della sistemazione del problema ebraico.

4) La ricostruzione dei traffici e della vita economica a vantaggio di tutti i cittadini che vivono in questo spazio,

5) La garanzia della sicurezza di tutto questo territorio e

6) L’istituzione di uno Stato polacco che, nella sua costituzione e nei suoi organi direttivi, offra la garanzia che non nasca né un nuovo focolaio d’incendio contro il Reich germanico né venga formata una centrale di intrighi contro la Germania e la Russia.

Oltre a ciò si dovrà cercare immediatamente di eliminare gli effetti della guerra, o almeno di mitigarli e cioè di alleviare, mediante un’ azione pratica di soccorso, l’enorme sofferenza in atto. Questi compiti – come già rilevato – possono essere bensì discussi al tavolo di conferenze, ma non vi possono essere mai risolti. Se l’Europa ha interesse alla calma ed alla pace, allora gli Stati europei devono essere grati alla Russia ed alla Germania per il fatto di esser pronte a fare ormai di questo focolaio di disordine una zona di sviluppo pacifico, di assumere la responsabilità e di sopportare i sacrifici anche a ciò inerenti. Per il Reich germanico questo compito, dato che esso non può essere interpretato imperialisticamente, implica un lavoro che potrà durare da 50 a 100 anni. La giustificazione di questo lavoro tedesco è da ricercarsi nell’ordinamento politico di questo territorio come pure nello sviluppo della sua vita economica. In definitiva però le due finalità tornano a vantaggio di tutta l’Europa.

Il secondo compito, ai miei occhi di gran lunga più importante, è però quello della creazione non solo del convincimento ma anche della sensazione di una sicurezza europea. All’uopo è necessario che

1) subentri un’assoluta chiarezza sui fini della politica estera degli Stati europei. Per quanto concerne la Germania, il Governo del Reich è pronto a dare un chiaro e completo quadro delle sue intenzioni in materia di politica estera. A tale riguardo esso pone in cima a questa dichiarazione la constatazione che, per esso, il trattato di Versaglia non deve più considerarsi come esistente e cioè che il Governo germanico del Reich e con esso tutto il popolo tedesco non vedono nessuna causa e nessun motivo di qualsiasi ulteriore revisione, eccetto la richiesta di un possedimento coloniale spettante al Reich; in prima linea quindi la restituzione delle colonie tedesche. Questa richiesta coloniale è motivata non soltanto dalla legittima pretesa storica sulle colonie tedesche, ma sopratutto dal legittimo diritto elementare in merito alla partecipazione alle fonti di materie prime della terra. Questa richiesta non è ultimativa, ed essa non è una richiesta spalleggiata dalla forza, bensì una richiesta della giustizia politica e del buon senso comune in materia economica.

2) La necessità di un vero rifiorire dell’economia internazionale, collegata all’incremento del commercio e delle comunicazioni, premette il riordinamento delle economie interne e delle produzioni nell’ambito dei singoli Stati. Per facilitare lo scambio di queste produzioni bisogna giungere però ad un riordinamento dei mercati e ad un regolamento definitivo delle valute, allo scopo di abbattere così lentamente gli ostacoli che si oppongono ad un libero commercio.

3) La premessa più importante per un vero rifiorire dell’economia europea, ed anche extra-europea, è però la creazione di una pace assolutamente garantita ed un sentimento di sicurezza nei singoli popoli. Questa sicurezza non è soltanto resa possibile mediante il sanzionamento definitivo dello status europeo, ma soprattutto colla riduzione degli armamenti ad una misura ragionevole ed anche economicamente sopportabile. Questo necessario sentimento di sicurezza presuppone però innanzitutto un chiarimento dell’impiego e dell’applicazione di determinate armi moderne, che, nei loro effetti, sono atte in ogni momento a penetrare nel cuore di ognuno dei singoli popoli e a lasciare quindi una sensazione durevole d’incertezza. Già nei miei precedenti discorsi al Reichstag ho fatto delle proposte in questo senso. Esse – per il solo fatto che partivano da me – furono respinte. Credo però che la sensazione di una sicurezza nazionale in Europa sarà ripristinata soltanto quando avrà luogo in questo campo, in virtù d’impegni internazionali chiari e valevoli, un’ampia determinazione del concetto sull’impiego di armi ammesse e non ammesse.

Così come la convenzione di Ginevra riuscì a proibire, almeno presso gli Stati civili, l’uccisione di feriti, il maltrattamento di prigionieri, la lotta contro i non belligeranti ecc., e così come si riuscì, con l’andare del tempo, a giungere al rispetto generale di questa norma, nello stesso modo si deve riuscire a fissare l’impiego dell’aeronautica, dei gas, ecc., dei sommergibili, ma anche definire il concetto di contrabbando in modo tale che la guerra venga spogliata dell’orribile carattere di una lotta contro donne e bambini e, in generale, contro i non belligeranti. Il bando di determinati procedimenti condurrà automaticamente all’eliminazione delle armi divenute quindi superflue. lo mi sono sforzato, già in questa guerra con la Polonia, d’impiegare l’arma aerea soltanto contro i cosiddetti obbiettivi militari importanti e di farla entrare in azione quando in un punto veniva opposta una resistenza attiva. Dev’essere però possibile, appoggiandosi alla Croce Rossa, di trovare un fondamentale regolamento internazionale di applicazione collettiva. Soltanto in base a queste premesse, potrà tornare, nel nostro continente densamente popolato, una pace che, libera da diffidenze e da timori, potrà creare i presupposti per un vero rifiorire anche della vita economica. Io credo che non ci sia nessun uomo di Stato europeo e responsabile che non desideri nel più profondo del suo cuore la prosperità del suo popolo. Una realizzazione di questo desiderio è però soltanto immaginabile nel quadro di una collaborazione generale delle nazioni di questo continente. L’assicurare questa collaborazione può essere quindi la sola meta di ogni singolo uomo che lotta realmente per l’avvenire anche del suo popolo.

Necessità di una conferenza

Per raggiungere quest’alta meta dovranno pur riunirsi un giorno le grandi nazioni di questo continente, allo scopo di elaborare, di accettare e di garantire in un ampio ordinamento uno statuto che dia a tutti il sentimento della sicurezza, della tranquillità e della pace. E’ impossibile che una simile conferenza si riunisca senza i più accurati lavori preliminari, ossia senza il chiarimento dei singoli punti e soprattutto senza un lavoro preparatorio. È altrettanto impossibile che una simile conferenza, che dovrà determinare per decenni il destino di questo continente, operi al rombo dei cannoni e anche soltanto sotto la pressione delle armate mobilitate. Dato però che questi problemi prima o dopo dovranno essere risolti, sarebbe più ragionevole attuare questa soluzione prima che milioni di persone si dissanguino senza ragione e che valori di miliardi vengano distrutti. Il perdurare dell’attuale situazione sul fronte occidentale è inimmaginabile. Fra breve, ogni giorno che passerà richiederà sacrifici crescenti. Poi la Francia comincerà col bombardare e demolire Saarbrücken. L’artiglieria tedesca, da parte sua, distruggerà per rappresaglia Mülhausen. Per vendicarsi a sua volta la Francia prenderà Karlsruhe sotto il tiro dei suoi cannoni e la Germania, di ritorno, Strasburgo. Poi l’artiglieria francese sparerà su Friburgo e la tedesca su Colmar, oppure Schlettstadt. Verranno poi piazzati dei pezzi di maggior portata; in ambo i campi la distruzione dilagherà sempre più e ciò che infine i cannoni a lunga portata non riusciranno più a raggiungere, verrà distrutto dall’aviazione. Ciò sarà molto interessante per un certo giornalismo internazionale e molto utile per i fabbricanti di aeroplani, di armi, di munizioni, ecc.; ma orribile per le vittime. E questa lotta di distruzione non si limiterà soltanto alla terraferma. No, essa si estenderà lontano, oltre i mari. Oggi non vi sono più isole. Ed il patrimonio nazionale d’Europa sarà disperso in munizioni e la forza dei popoli si dissanguerà sui campi di battaglia. Un giorno però vi sarà nuovamente una frontiera fra la Germania e la Francia; soltanto, al posto di fiorenti città si estenderanno lungo di essa campi di rovine ed infiniti cimiteri. I signori Churchill e compagni possono tranquillamente interpretare le mie opinioni come espressioni di debolezza o di viltà. Io non ho ad occuparmi delle loro opinioni. Faccio soltanto queste dichiarazioni, poiché voglio naturalmente risparmiare anche al mio popolo queste sofferenze. Se però l’opinione del signor Churchill e dei suoi dipendenti dovesse prevalere, allora questa mia dichiarazione sarà stata l’ultima. Allora noi combatteremo. Né la forza delle armi né il tempo potranno vincere la Germania. Un novembre 1918 non si rinnoverà più nella storia tedesca. La speranza in un dissolvimento del nostro popolo è però infantile. Il signor Churchill è convinto che vincerà la Gran Bretagna. Io non dubito un secondo che sarà la Germania a vincere. Il destino deciderà chi di noi ha ragione. Ma una cosa è sicura: nella storia mondiale non si sono mai ancora avuti due vincitori, molto spesso però dei vinti. Già nell’ultima guerra mi sembra che ne sia stato il caso.

Che prendano ora la parola quei popoli ed i loro capi, che sono dello stesso parere. E che respingano la mia mano coloro i quali credono di dovere scorgere nella guerra la soluzione migliore. Come capo del popolo tedesco e come Cancelliere del Reich posso in questo momento soltanto rendere grazie a Dio, il quale ci ha così miracolosamente benedetti nella difficile lotta per il nostro diritto e pregarlo di indicare a noi ed a tutti gli altri la giusta via, sulla quale sia concessa una nuova felicità, non solo al popolo tedesco, ma all’Europa intera”.

5,0 / 5
Grazie per aver votato!